LA RISACCA

Cosa sta succedendo quest’estate nella lotta al coronavirus? Come pagheremo il fatto di aver abbassato la guardia, soprattutto fra i giovani?

Davanti ad un tratto di mare, dove infuria una burrasca, impressiona la forza delle onde. Le creste mutevoli, che svettano come guglie sui muraglioni compatti dei flutti. Un susseguirsi di verdi e azzurri vertiginosi, di bocche spalancate sugli abissi.
La violenza dell’acqua la percepiamo come un assalto frontale: con tutta la loro furia, si abbattono i marosi e travolgono ogni cosa.
Ma come sa bene ogni surfista e ogni marinaio, il pericolo dell’onda è nella risacca. Quando la violenza dell’impatto sembra del tutto esaurita, inizia quel movimento di ritorno, un risucchio violento, che non lascia scampo, finché non cessa da solo per lasciar spazio alla prossima onda. Dal mare, in effetti, ci si salva assecondandone il ritmo.

La natura è prodiga di lezioni gratuite: il suo carattere, unitario e coerente, permette di imparare con l’esperienza e l’osservazione cose utili per sopravvivere.
L’estate dopo la prima (seria) pandemia del nuovo millennio è caratterizzata da una serie di fenomeni sociali che possiamo definire “effetto reflusso”. Dopo aver raggiunto il proprio picco, la diffusione della malattia ha rallentato e lasciato visibili sulla battigia gli effetti dello sconvolgimento sociale, economico e sanitario.
Aziende in crisi, negozi e attività ricettive che stentano a ripartire, nuove povertà, interi settori del mercato del lavoro tagliati fuori dalle nuove regole del distanziamento sociale e dei protocolli di sicurezza; famiglie e ragazzi si dibattono nell’incertezza di come sarà il rientro a scuola, affrontando con un misto di sarcasmo e rabbia la mancanza di indicazioni chiare, che certamente non spiccano fra le nebulose righe dei protocolli di sicurezza.
Anche la sanità, che pure sta continuando a fornire un’eccellente risposta nel controllo dell’epidemia, si trova davanti alla sfida di recuperare le opportunità di salute perdute nel periodo del lockdown: prestazioni diagnostiche, chirurgia ambulatoriale programmata, cure oncologiche, screening e vaccinazioni sono state duramente penalizzate dalle restrizioni. La messa a regime di un piano straordinario per colmare il gap che si è creato richiede una profonda riorganizzazione delle strutture sanitarie e ingenti investimenti in risorse e competenze.

Nel frattempo, mentre annaspiamo nella risacca della ripartenza, siamo consapevoli delle nuove onde che si profilano all’orizzonte: come ci insegnano i dati degli altri Paesi, l’allentamento delle restrizioni e lo scarso rispetto delle misure preventive comporta un nuovo incremento di casi.

Attualmente, in Italia, c’è una tendenza di aumento costante dei nuovi positivi che va avanti dalla metà di giugno: la percentuale di nuovi casi sul numero di attualmente positivi è sempre in crescita; fino all’ultima settimana di luglio, questo effetto è stato compensato dalla guarigione dei casi più vecchi. Ma dal 31 luglio in avanti, il numero di attuali malati è stato soltanto in crescita. La curva, insomma, risale.

Le caratteristiche di questa nuova fase, che alcuni chiamano impropriamente “seconda ondata”, saranno però diverse dallo tsunami che ci ha travolto questo inverno.  Il numero crescente di nuovi casi giornalieri non comporta per ora la saturazione delle strutture sanitarie. Questo non perché il virus si sia indebolito, ma anche perché sono colpite le fasce di età giovanili, in cui l’infezione comporta sintomi in genere più lievi. Inoltre, il sistema sanitario è più preparato: i servizi territoriali sono dotati di risorse, strumenti e procedure per la gestione dei contatti molto più raffinati.
Rispetto all’inizio dell’epidemia, i malati ospedalizzati sono stabilmente circa il 6% del totale, mentre erano il 50% a metà marzo. Questo riflette senz’altro il fatto che esistono protocolli diagnostico-terapeutici domiciliari più efficaci e capacità di presa in carico in strutture diverse dall’ospedale.

Ma se ad ammalarsi sono i più giovani, è perché troppi scelgono di non proteggersi; sapendo di rischiare poco (anche se, purtroppo, si tratta di una scommessa non priva di rischi), alcuni rifiutano di adottare le misure di protezione richieste per ridurre la circolazione del virus. Molti ritengono che il prezzo di questo diffuso atteggiamento di negazione del rischio (in parte fomentato per cinico calcolo demagogico e per interessi personale) lo pagheremo in autunno, quando l’occupazione degli spazi chiusi aumenterà e di conseguenza ogni persona ancora positiva avrà molte più possibilità di contagiarne altre; tutto questo avrà un prezzo, in termini di vite umane, di costi economici, di sofferenze e disagi, di opportunità di cura per altre patologie che verranno nuovamente perdute.
Toccherà a tutti noi interrogarsi se sarà valso il prezzo di un aperitivo o di un assembramento in spiaggia, di una cena spensierata o di un concerto affollato.

In queste settimane di se la risacca ci troverà aggrappati al vecchio modo di fare le cose e ci avrà trascinati sul fondo, dove la prossima ondata rischia di sommergerci; o se invece, alzando la testa dall’acqua, saremo riusciti ad assecondare il nuovo contesto, trovando altri modi di vivere le interazioni sociali, e tutto questo ci avrà portati in cima all’onda di un fenomeno che non possiamo evitare, ma che non deve travolgerci inevitabilmente.

Per molti medici che lavorano sul territorio, in prima linea, la strada per gestire la convivenza con il virus è chiara: se ogni nuovo caso di Coronavirus potrà essere seguito con continuità e attenzione, sarà possibile anzitutto circoscrivere i nuovi focolai e impedire che il virus continui a circolare: l’esperienza di questi durissimi mesi ha mostrato che dove è stato effettuato un corretto approccio territoriale nella gestione dell’epidemia, individuando corretti criteri di presa in carico domiciliare i risultati sono stati migliori. Dall’altro, la presa in carico domiciliare consente di migliorare la prognosi a breve e a lungo termine oltre che le conoscenze sulla malattia.

Dall’osservazione dei casi domiciliare, ad esempio, emerge che molte persone asintomatiche rimangono positive per molto tempo, anche due mesi. Inoltre è stato notato che, in genere, gli anticorpi neutralizzanti si trovano in alta concentrazione soltanto nelle persone che hanno avuto una grossa sintomatologia, mentre negli asintomatici questa concentrazione è molto bassa, se non assente.
L’esperienza con i malati da Coronavirus sta dimostrando anche che non è assolutamente una malattia acuta ma è invece una malattia cronica perché l’infezione lascia danni persistenti, e a volte anche permanenti, in molti organi: polmoni, cuore, reni. A questo vanno aggiunti sintomi generali come inappetenza (il calo di peso può essere di vari kg.) astenia, depressione, che persistono per molto tempo. Per questo motivo devono essere messi in atto idonei percorsi di riabilitazione fisica, di una alimentazione ipercalorica e di un supporto psicologico con controlli periodici nel tempo.

Questo approccio alla persona, che mette il malato e le sue esigenze al centro dell’azione clinica e dell’organizzazione dei servizi, è basato sul concetto della “continuità” della cura. Un determinante fondamentale del lavoro del Medico di Famiglia, figura che si prende cura del paziente durante tutta la vita: dalla nascita alla morte.
Sostanzialmente questa visione della cura si fonda su un cambiamento di prospettiva: da un approccio focalizzato sulla malattia (modello biomedico) ad un approccio fondato sulla persona e sulla popolazione (modello bio-psico-sociale), cosicchè è stato introdotto anche il concetto di Medicina di Comunità.

Il Medico di Famiglia (MdF) è l’operatore sanitario più a contatto con la popolazione; in genere i cittadini in prima istanza si rivolgono al MdF quando hanno problemi di salute, pertanto può essere definito “la sentinella della salute pubblica”. L’esperienza dell’infezione da Covid-19 ha insegnato che il contenimento si ottiene principalmente tramite un valido filtro sul territorio che impedisca un accesso non ben regolato agli ospedali. È evidente che in tal senso un ruolo fondamentale è rivestito dagli ambulatori dei Medici di Famiglia.
In questo periodo nel quale in Italia ci stiamo avviando ad una fase di post emergenza sanitaria (ma dove il virus sta ancora circolando), stiamo anche purtroppo entrando nel pieno di una grave crisi economica che avrà effetti pesanti anche sul Sistema Sanitario con il rischio reale di vedere messa in pericolo la salute delle categorie sociali più deboli. In questo senso una profonda riorganizzazione della Medicina di Famiglia che recuperi maggiormente i cardini della sua essenza e cioè la prossimità e la vicinanza alla popolazione e un innovativo modello assistenziale basato su una medicina di iniziativa e pro-attiva potrebbe sicuramente contribuire a dare una risposta globale ad ogni tipo di emergenza sanitaria e a favorire una maggiore coesione sociale.

A conclusione di queste riflessioni, pensiamo possa essere utile riportare un’esperienza diretta di uno degli autori (Alberto), che ha vissuto in prima linea come medico di famiglia in una zona particolarmente colpita dalla pandemia.
“A marzo di quest’anno quando era esplosa l’epidemia da Coronavirus i cittadini erano preoccupati, disorientati, chiedevano informazioni … La mia disponibilità era continua durante tutta la giornata tramite telefonate, sms, whatsApp, videochiamate: si trattava di ascoltare, informare, tranquillizzare ma anche ammonire per comportamenti scorretti …
Ma ad un certo punto lo scenario è cambiato.
Mi è stato comunicato che una collega con la quale avevo lavorato a stretto contatto era positiva al Coranavirus ed era grave in ospedale. È iniziato quindi anche per me l’isolamento domiciliare Ero improvvisamente dall’altra parte della barricata: anch’io provavo le stesse ansie e le stesse preoccupazioni dei miei pazienti.
Fortunatamente i due tamponi eseguiti hanno dato esito negativo e pertanto son potuto ritornare a lavorare… però con uno spirito un po’ diverso: quei giorni di isolamento mi son serviti per entrare di più nella “pelle”, nello stato d’animo dei miei pazienti…
Ora l’ascolto o la visita hanno maggior intensità e profondità. Con molte persone è nato un legame che va al di là del semplice rapporto medico/paziente.
Un signore mi ha detto: “Vorrei che questo rapporto continuasse anche quando sarà passato questo difficile momento”. Ecco, si tratta di continuare a fare il mio lavoro tenendo sempre a mente una regola semplice: fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te… forse quei giorni di isolamento mi hanno insegnato proprio questo … e questo in definitiva mi sembra l’elemento fondamentale della medicina di comunità.”

Storie come questa sono tutt’altro che casi isolati: anzi, possiamo affermare che questa pandemia stia mostrando come i concetti di salute e malattia debbano essere riconsiderati. Il grande filosofo Martin Buber affermava “In principio è la relazione” … nel senso che la relazione è la caratteristica che definisce la persona … affermazione che si inserisce pienamente nella concezione fisica per cui “tutto è relazione e niente esiste al di fuori della relazione”. Partendo da questa prospettiva anche salute e malattia devono essere considerati non solo beni individuali ma anzitutto “Beni Relazionali”. Cioè beni che prendono senso dal rapporto e dall’incontro con un’altra persona, dalla capacità di creare solidarietà, interdipendenza, gratuità, reciprocità.
Anche Gandhi sosteneva “non posso fare male a te senza ferire anche me stesso”.

E questa pandemia ce l’ha insegnato: nessuno si salva da solo, proteggendo te proteggo anche me e proteggendo me proteggo anche te.
Non è possibile salvaguardare la nostra salute e il nostro benessere se non insieme con una strategia comune.

Una delle chiavi per il cambiamento che ci attende, per non essere travolti dalla risacca, è il salto culturale che va “dall’io al noi”. Il diritto alla libertà e autonomia personale deve essere bilanciato con il dovere di contribuire alla sicurezza collettiva, più propriamente di può parlare di “Autonomia Relazionale”. Cioè la forma eticamente più alta della libertà è la Solidarietà che porta ad una comunità che cura. E se ci riusciamo, potremmo forse anche dire che tutta la sofferenza di questi mesi non sarà stata invano.

Dr. Alberto Marsilio
Dr. Spartaco Mencaroni