Fine vita. Noi, medici palliativisti, il diritto alla cura e i pregiudizi che restano

Il nostro servizio a chi soffre per una malattia inguaribile ancora non è compreso da buona parte dell’opinione pubblica. Però è prezioso perché tutela la qualità della vita che resta

Da Avvenire – Antonella Goisis

È tardi e, nel silenzio della notte, sto pensando ai miei pazienti, a cominciare da Paolo che, nelle prime ore dell’alba, è tornato alla casa del Padre: è stato tutto così veloce, poco più di un mese fa abbiamo attivato le cure palliative domiciliari per il controllo del dolore, della difficoltà respiratoria, della fatica indotti da un tumore polmonare scoperto per caso in pronto soccorso, dove Paolo si era recato proprio per alleviare quel dolore pazzesco, “da morire”, che lo affliggeva da pochi giorni. Tumore avanzatissimo, nessuna possibilità di guarigione ma solo di cura, e questo non è poco perché inguaribile non è sinonimo di incurabile e molto bisogna cominciare a fare quando non c’è più nulla da fare, come diceva Cicely Saunders, fondatrice del movimento Hospice e mia grande insegnante insieme a Vittorio Ventafridda, che iniziò a parlare di terapia del dolore e cure palliative intorno agli anni Ottanta, all’Istituto dei Tumori di Milano, dove ebbi la fortuna di conoscerlo mentre frequentavo la scuola di specializzazione in Oncologia.

Le cure palliative esistono quindi da anni ma, paradossalmente, non sono ancora conosciute dai più. A tutt’oggi vengono spesso ritenute cure di fine vita, da proporre solo ai pazienti neoplastici negli ultimi giorni. Ma, se questo era vero all’inizio, ora non è più cosi: le cure palliative sono proposte a tutti quei pazienti con una malattia inguaribile che condiziona gravi insufficienze a livello di tutti gli organi principali – il cuore, i polmoni, i reni, il fegato, il sistema nervoso in toto – e che hanno un’aspettativa di vita sino ai 12 – 24 mesi. Sono cure che non guariscono ma tutelano la qualità della vita che resta. leggi tutto